O, più precisamente, un affare di famigliE: sì, perché in tutta la sua carriera il regista giapponese ha analizzato i tanti modi di essere una famiglia, di costruire e coltivare legami e relazioni.
Non fa eccezione il suo ultimo film: Le Buone Stelle – Broker, dal 13 ottobre al Cinema, vede al centro una famiglia “per caso”, unita non dal sangue, ma dalla volontà di trovare una casa e dei genitori per un bambino abbandonato.
Il quadro iniziale non è certo idilliaco: i due protagonisti sono a tutti gli effetti decisi a vendere il bambino; a loro si unisce la giovane madre, pentita di averlo abbandonato fuori da una “baby box”.
Il viaggio per vendere il piccolo rivelerà però la sincera volontà di offrirgli un futuro migliore, diverso dai loro. «Non dovrà mai vivere come ho vissuto io» afferma la madre in uno dei momenti più struggenti del film; come lei, anche gli altri personaggi hanno alle spalle scelte sbagliate, dilemmi irrisolti e abbandoni.
Via via che le corazze cadono e le cicatrici si rivelano, emerge anche la forza dei sentimenti, capace di renderli una vera famiglia. Nonostante le apparenze, nonostante tutto.
Famiglia, memoria, legami
Sono questi i temi ricorrenti nel Cinema di Kore-eda, sin dagli inizi come documentarista. La memoria spesso accompagna il lutto, i legami si costruiscono e ricostruiscono nelle difficoltà… e la famiglia, a volte, non è quella in cui nasciamo, ma quella che ci troviamo a scegliere.
Il regista racconta di aver iniziato a riflettere sul significato di famiglia alla scomparsa del padre. Quando ha perso anche la madre, si è ritrovato a pensare: come si fa a costruire una famiglia, a riempire il vuoto creato dalla morte?
I personaggi dei suoi film, sempre in chiaroscuro, sovente ai margini della società, continuano a cercare una risposta… mentre noi spettatori ne condividiamo le emozioni e gli errori, e ci troviamo a empatizzare con loro, senza mai giudicarli.

Al centro della narrazione molto spesso ci sono i bambini. Ragazzini che sono figli lasciati soli, come in Nessuno lo sa (2004): il ruolo del dodicenne Akira, che si prende cura dei fratellini a Tokyo dove sono stati abbandonati dalla madre, ha reso l’allora quattordicenne Yūya Yagira il primo attore giapponese – e il più giovane in assoluto – a essere premiato a Cannes.
Bambini cresciuti nella famiglia “sbagliata” a causa di uno scambio in culla, come in Father and son (2013); oppure figlie diventate adulte senza padre, che alla sua morte accolgono con loro la sorellastra adolescente (Little Sister, 2015). Bambini figli di padri decisamente imperfetti, come in Ritratto di famiglia con tempesta (2016).

Il peso dell’infanzia non svanisce mai, come dimostra il complicato rapporto madre-figlia al centro di Le verità (2019), prima produzione non in lingua giapponese di Kore-eda, che si affida a due interpreti iconiche come Catherine Deneuve e Juliette Binoche per parlare di conflitti antichi e mai risolti.
Ma è doveroso un passo indietro di un anno, quando al Festival di Cannes 2018 il regista presenta quello che diventerà il suo manifesto: Un affare di famiglia conquista la Palma d’oro, corre per l’Oscar al miglior film internazionale (vincerà Roma di Alfonso Cuarón, un’altra storia di famiglia e di memoria), e soprattutto consacra Kore-eda nel cuore degli spettatori di tutto il mondo.
I temi cardine della sua poetica ci sono tutti, elevati all’ennesima potenza: il conflitto tra legge morale e legge sociale, il labile confine tra giusto e sbagliato, attimi di verità, legami e vincoli che si rivelano diversi da ciò che appaiono. Sentimenti e famiglia, appunto: anche se a tenerla insieme sono scopi decisamente disonesti.
Si può essere opportunisti e al tempo stesso dare prova di grande altruismo? Sembra proprio di sì… forse perché nel Cinema di Kore-eda, così come nella vita vera, non esistono granitiche certezze, ma solo personaggi (persone) in continua evoluzione, fatti della stessa sostanza delle loro scelte, e spesso dei loro errori.

C’è speranza, anche. Una speranza che non è cieco ottimismo, ma che si manifesta per lampi, si nasconde in fugaci risate, si rivela in momenti di autentica commozione. C’è felicità, tra le tante ombre di queste esistenze. C’è il significato del nostro essere al mondo. C’è il mistero della vita, e delle sfide che ci presenta. C’è quel vuoto che tutti cerchiamo di colmare.
Il grande critico Roger Ebert – Premio Pulitzer e primo critico a ottenere la stella sulla Walk of Fame – scriveva che i film di Kore-eda «abbracciano il mistero della vita e ci incoraggiano a pensare al motivo per cui siamo qui e cosa ci rende veramente felici».
Lo affermava parlando dei suoi due lungometraggi: Maborosi (1997) e After Life (1999), aggiungendo che si era guadagnato il diritto di essere considerato – con Kurosawa e Bergman – tra i grandi umanisti del Cinema. Valeva allora, vale ancora oggi.
Prima di diventare regista, Kore-eda avrebbe voluto essere uno scrittore: certamente i suoi film rappresentano i capitoli di un lungo, malinconico, ironico, profondo e delicato romanzo famigliare. Di quelli che vorresti non finissero mai.